domenica 22 luglio 2007

Ghetti e moschee

Chiudiamo le moschee dell'odio, della violenza e della morte. Via dall'Italia i predicatori del terrorismo islamico. Grazie alla Digos per gli arresti di Perugia, complimenti al capo della Polizia Manganelli e al ministro dell'Interno Amato. Ma non basta tirare un sospiro di sollievo per il mancato attentato. Dobbiamo liberarci dalle «fabbriche dei kamikaze» presenti nel territorio nazionale.
Solo pochi giorni fa il comandante generale dei Carabinieri Gianfrancesco Siatzu aveva ammonito che siamo un Paese a rischio, puntando il dito proprio sui terroristi maghrebini. Ora abbiamo l'ennesima conferma dell'intreccio fisiologico tra il terrorismo islamico globalizzato e la rete delle moschee dove si inneggia alla «guerra santa» nel nome di Allah. Così come abbiamo la certezza che si tratta di una realtà strutturale, ben radicata e diffusa sull'insieme del suolo italiano. Di ciò ormai le autorità di sicurezza sono convinte perché si tratta della nuda e cruda realtà. Ma allora perché non riusciamo ad affrancarci da questa minaccia che incombe sulla nostra vita e che condiziona la nostra libertà? La prima ragione è che la magistratura e più in generale il mondo politico, intellettuale e giornalistico continuano a voler ascrivere la predicazione d'odio nell'ambito della libertà d'espressione. È significativo che solo oggi la Procura di Perugia, per la prima volta dal luglio 2005, ha proceduto agli arresti applicando l'emendamento alla norma 270 del codice penale che sanziona «l'addestramento a finalità terroristiche». Ma in generale le norme che considerano la predicazione d'odio come «apologia di terrorismo» non sono mai state finora impugnate pur in presenza della flagranza di reato. La seconda ragione è che fatichiamo ad assumere la piena consapevolezza che la vera arma del terrorismo islamico globalizzato non sono gli esplosivi o le pistole, ma il lavaggio di cervello che trasforma le persone in robot della morte. E che ciò avviene all'interno delle moschee, nell'ambito di una filiera che parte dalla predicazione d'odio che inculca la fede nel cosiddetto «martirio» islamico, si passa all'arruolamento in gruppi terroristici, poi all'addestramento all'uso delle armi e degli esplosivi, infine si arriva alla fase dell'attuazione dell'attentato terroristico vero e proprio. In Italia e altrove in Europa non si riesce a far propria questa visione d'insieme, a prendere atto che si tratta di una unica struttura organica e integrata del terrorismo. Il risultato è che finiamo per procedere con una navigazione a vista.

Ci sentiamo in pace con noi stessi se riusciamo a convivere con i predicatori d'odio, fintantoché non scoppiano gli attentati, immaginando che ciò sia espressione di una autentica democrazia liberale. Consideriamo un successo il riuscire a scovare in tempo i piani per compiere gli attentati, considerandolo giustamente un successo degli operatori della sicurezza. Ma ci asteniamo dall'andare in profondità, non vogliamo confrontarci con la radice del male. Temiamo e scongiuriamo l'attentato, che è la punta dell'iceberg, ma non vogliamo guardare in faccia e affrontare con determinazione la realtà dell'iceberg. Piuttosto preferiamo rinviare la soluzione del problema di fondo, che se ne occupi qualcun altro che arriverà dopo di noi, il futuro governo o i nostri figli. La vicenda della moschea-scuola di terrorismo di Perugia evidenzia un altro aspetto che ci riguarda da vicino.

Il sobborgo di Ponte Felicino, che ospita la struttura eversiva, si è trasformato in un ghetto dove su circa 5 mila abitanti solo il 2% sono italiani. E i ghetti sono il terreno di coltura ideali delle identità separate e conflittuali, specie nel caso degli estremisti islamici. Il terrorismo si previene anche con una strategia dell'integrazione che impedisca la formazione dei ghetti e porti obbligatoriamente alla condivisione dei valori e delle regole comuni. Diversamente non potremo mai dar vita a un modello di convivenza sociale che salvaguardi le certezze degli italiani e soddisfi le aspettative degli immigrati. Sarebbe assai grave se la vicenda di Perugia, così come è già accaduto in esperienze simili a Cremona, Milano, Bologna, Genova, Torino, Brescia e Firenze, si concludesse con il sorriso e la soddisfazione dei responsabili della sicurezza. Perché il problema di fondo del terrorismo islamico in Italia è tutto da affrontare e da debellare.

Magdi Allam (da Corriere.it)

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